Mauro Corradini

Mauro Corradini

Si è per molti anni mossa nel segno inciso, deciso, astratto, nitido: ha trasferito, dopo una lunga gestazione interiore, la forza del segno diretto, con cui taglia la pietra.

Trovata o costruita per interventi preliminari la forma giusta, Angela Corti interviene con martello e scalpello e taglia verticalmente o obliquamente la pietra. Il taglio non  è mai regolare, lineare, non usando l’autrice le procedure meccaniche; vuole che la pietra si rompa, seguendo le sue interne venature, la sua struttura. Sulla frattura che si crea, su una ferita voluta e violenta, interviene successivamente con mano e con opera femminili;  interviene  con il rammento, la cicatrizzazione che sta lì tra la sartoria e l’operazione chirurgica, che tende a riunificare ciò che lei stessa ha diviso, tende a disegnare tracce sulla superficie.

Maschile e femminile si congiungono, trovano un punto d’incontro fino a diventare parte del medesimo mondo espressivo, i cui significati metaforici sono abbastanza evidenti e palesi: ricostruire dopo il disastro, dal diluvio in qua, sembra essere il destino degli uomini.

 Mauro Corradini
Prima Rassegna d’Arte – Premio Orzinuovi, 2008

Mauro Corradini, Le pietre tessute di Angela Corti

Quasi ossimoro il lavoro calcografico e plastico di Angela Corti, giovane artista bresciana, che si è presentata in città, per la prima volta (crediamo), con una completa personale, recentemente conclusa allo Spazio Overseas di Via Carini, 4.

L’avevamo già incontrata come calcografa, con i suo segno deciso, recupero mentale e manuale della cultura dello spazialismo, arricchito dalla presenza di un fondo rugoso, pieno di sbalzi e contraddizioni, pieno anche di incisioni in piano, a mutare il gesto con il registro della regolarità geometrica: una prima contraddizione, come se la linearità espressiva non potesse bastare: o come se proprio nel dialogo tra figure di un’astrazione geometrica, sotterranea e tuttavia presente, e segni tra gesto (e rigore) potesse costituire l’unica metafora del mondo. Poi, sulla calcografia, arte di nicchia dalla lunga storia, si è innestata la voglia di esplorare lo spazio; lo spazio fisico della forma, intendiamo. Sono mutati i registri; si è insinuata la condizione concettuale che non disdegna la manualità acquisita, il segno grafico è diventato oggetto, è diventato traccia leggibile, filo di rame e/o d’acciaio che lega frammenti di marmo, volontariamente separati dal colpo di scalpello.

Una sorta di tessitura elaborata (di pietre tessute parla il titolo della mostra) aggiunge contraddizione alla contraddizione originaria che vuole collegare ciò che ha diviso, vuole fermare e chiudere ciò che ha separato; ma si possono tessere le pietre? Può sussistere un’indicazione di disagio che tocchi così profondamente materia e gesto?

Ecco, Angela Corti si muove sullo spartiacque di una enunciazione che viaggia sui parametri della riflessione linguistica, ma, forse in forza della calcografia frequentata e praticata a lungo, non dimentica la manualità; non è attratta dal bravo artigiano, ma sa che l’opera vive nella giustezza dei relazioni tra gesto e materiali: in questo senso la contraddizione della pietra tessuta si eleva a immagine di più vaste inquietitudini.

Bresciaoggi, 2006

Angela Corti: contrasti e aperture

Mauro Corradini

1. Nelle sue straordinarie Lezioni americane, osserva Italo Calvino a proposito di Robert Musil, con una riflessione applicabile a tutto il secolo scorso, che nodo essenziale della nostra conoscenza è “la coscienza dell’inconciliabilità di due polarità contrapposte”. Ora di diversa conformazione, a volte addirittura accostate, le contrapposizioni costituiscono l’anima del nostro stesso esistere. Nell’arte soprattutto, e nell’arte contemporanea in particolare, emergono agevolmente le relazioni costruite all’interno della medesima dimensione stilistica, tra partecipazione e distacco, tra razionale ed emotivo, tra rigoroso (matematico-geometrico) e spontaneo (gestuale); in questa luce, tutta l’arte sembrerebbe un coacervo di contraddizioni; opposte e apparentemente inconciliabili, e tuttavia possibili in quell’universo lieve che l’arte, e solo l’arte, sa costruire. Difficile in una necessaria sintesi immaginare il secondo dopoguerra, il periodo a noi più vicino, senza considerare il contrasto tra emozioni improvvise e conturbanti e raffreddamenti, scaturiti anche per reazione: si pensi alla variabile geografia stilistica dell’informale, dal modello europeo tra materia e gesto (tra Fautrier e Hartung) e quello d’Oltre oceano tutto gesto e immedesimazione; si pensi ancora alle risorgenti esperienze neo-dada (tra pop arte e aperture sul dramma dello spazio) e le restanti manifestazioni parallele che tendono a raffreddare, fino alla smaterializzazione dell’icona, a partire dal vuoto creato dal bleu di Yves Klein, la pagina più dirompente dell’intera cultura post bellica.

Ogni giovane che entra oggi sulla scena artistica non può, razionalmente o intuitivamente, non fare i conti con questa storia, con questa disposizione, che apre la via tanto all’uscita dalle procedure espressive (e con le neo avanguardie l’arte occupa lo spazio fisico dell’ambiente e il corpo stesso dell’artista), quanto ai clamorosi ritorni, con un bisogno di pittura che recupera anche le composizioni di settecentesca memoria. Quando Angela Corti, giovane autrice bresciana, compare sulla scena artistica, negli anni novanta, sono apparentemente lontane quelle originarie contraddizioni, ma una sotterranea eco permane, latente; e si coglie più nelle scelte linguistiche (non solo della nostra autrice) che nelle dichiarazioni, più nelle intuizioni che nelle riflessioni esplicite; sono ormai nel dna, prima ancora che nel pensiero razionale, di una generazione di trentenni che si è affacciata alle soglie del nuovo secolo con alle spalle un turbinoso quanto affascinante retroterra.

Contrasti e aperture sottolinea l’inevitabile conflitto, così come le interne contraddizioni; la prima delle quali, quasi la più esplicita, si incontra già sul piano formativo (anche questa una componente giovanile, quella della scelta emotiva, di un’età di transizione, dove tutto appare a portata di mano e nulla diviene raggiungibile): Angela studia lingue e dalle lingue trae la sua dimensione professionale primaria, e si dedica all’arte come passione e apertura espressiva; scelta la via parallela, personale, dell’arte, Corti si diploma a Brera in pittura, e subito sceglie una specializzazione (corsi a Venezia e Urbino) in calcografia; appresi gli strumenti pittorici e calcografici avverte l’attrazione per i materiali, per le forme plastiche, sceglie la scultura, da autodidatta questa volta, ma con chiari riferimenti espressivi, che rinviano tanto al concettuale che alle contaminazioni, che dell’età più recente sono il sostrato. Ad un tempo rigorosa nelle procedure espressive quanto emotiva nelle scelte linguistiche, Corti si propone con il coraggio dell’apertura, la sfida verso il nuovo, con la consapevolezza che i contrasti ci appartengono, e non vale la pena di negarli con un’inutile coerenza.

In un processo formativo che andrebbe riletto passo a passo, il percorso artistico della giovane autrice viene a restringersi in quelle che oggi appaiono le sue attività privilegiate, la calcografia, cui si dedica da oltre un decennio e la ricerca plastica, cui si dedica da un paio di anni. In campo calcografico Angela Corti ha già collocato segni certi, ha maturato esperienze importanti, dalla presenza nel Repertorio degli Incisori Italiani, edito a Bagnacavallo, alla partecipazione ad esposizioni di prestigio fino a figurare in un sodalizio, temporaneo e dalla forte connotazione espressiva; è il gruppo che dà vita alla mostra Nero di luce, per un intero anno (2006) circolante in tutta Italia con una collettiva sostenuta dall’entusiasmo dei partecipanti e dalla qualità delle oepre. Di contro, nuovo appare il suo cammino plastico, che qui si propone per la prima volta, anteprima di un progetto che sembra spostare i termini emotivi del fare arte, tra utopia e sogno.

Contrasti e aperture dunque: nell’esperienza poco più che decennale si colgono ad un tempo continuità e accelerazioni, coincidenze e salti, analogie e dissonanze, come se Angela Corti, di fronte agli stimoli della cultura non solo assimilasse le sostanze, ma cogliesse anche quegli umori sottili che rappresentano il sale della conoscenza, nella consapevolezza che la vicenda culturale è costruita su relazioni e passaggi e progetti, a prima vista incongrui e inusitati.

È la via complessa e piena di fascino che Angela Corti ha attraversato nell’ultimo decennio; risale infatti alla prima metà degli anni novanta la sua prima apparizione pubblica. Questo volume raccoglie gli esiti recenti, i più maturi, di un cammino più ampio; propone necessariamente il duplice percorso della calcografia e della scultura, cui Corti è approdata nell’ultimo biennio. La nuova disciplina ha dato rinnovato entusiasmo e voglia di fare; sovente l’autore crea l’opera e ne rimane soggiogato. In una sorta di pendolarismo tra due percorsi forse più vicini di quanto non appaia all’occhio che osserva in superficie, in una sorta di bipolarità che è bene considerare alla luce dei caratteri contrastanti che abbiamo indicato, alla luce di conflitti e suggestioni, Corti appare compiutamente ad un tempo segno inciso e forma plastica. Con l’avvertenza, che tutto quello che Angela Corti viene producendo va ricondotto all’idea di ossimoro, all’idea di contrasto. Già lo annotavamo un paio di anni fa presentando la rassegna Nero di luce; richiamata la figura retorica, il nostro testo sottolineava “il suo muovere con forza e vitalità il nero che tutto sovrasta, e il brulicare sotterraneo, bianco su bianco, della superficie trafitta e martoriata, quasi a trascrivere nella buccia d’arancia di un’epidermide affaticata il senso segreto e vibrante del fare”.

2. Angela Corti ha scelto da subito la linea non figurativa, che mantiene tanto nell’incisione, quanto nella scultura. Costruisce Angela l’immagine incisa su alcune costanti: da un lato la scelta della carta, una carta “martoriata”, una carta prodotta a mano, rugosa e ricca di avvallamenti e protuberanze, carica di umori. Nell’uso della carta a mano forse emerge il bisogno di partire da un linguaggio già sedimentato e praticato, di muoversi su una traccia che dia appigli e sostegni, meno presenti nelle carte levigate e fredde della moderna industria tipografica. Ha la carta a mano il sapore dell’albero, di cui ripete le gibbosità della corteccia, ma ha anche il calore caldo del sole, di cui ha imprigionato la luce con un bianco splendente, senza riflessi specchianti. La scelta di una carta “vissuta” appare come opzione attraverso cui si può leggere in controluce la nostra civiltà, che è ancora, nonostante le moderne tecnologie elettroniche, fortemente legata a Guttemberg, al sapore della composizione tipografica, al profumo d’inchiostro (per un calcografo, espressione carica di affetti ed emozioni).

La carta nell’opera di Corti gioca il ruolo della casualità; su cui Corti deposita i segni, che nascono dalla precisa intenzione del gesto, dell’occhio, della mano che scava la vernice per consentire all’acido di mordere la lastra. Casualità e rigore sono, ancora una volta, una sorta di ossimoro, un contrasto voluto e in parte esibito; impossibile predisporre compiutamente nel momento della stampa calcografica le rugosità della carta; ugualmente impossibile, per contro, lasciare alla casualità del gesto inconsulto, il segno: troppo vibrante, diretto, troppo repentino nel calarsi sulla lastra anche se a lungo soppesato e meditato prima del fare; i segni di Corti sono aggrovigliati e decisi; come se, dopo aver osservato a lungo le tracce della vernice, le chiarità e le ombre della vernice, Corti decidesse di colpo di “sferrare” i suoi segni. Bisturi e sedimentazione, certezza e vigore; appaiono così i segni della calcografa, vergati con energia, a volte con la tecnica diretta della puntasecca, come se solo nel contatto diretto tra punta e tavola potesse emergere la poetica dell’autrice, l’esibito contrasto tra certezze e sotterranee angosce; solo nella forza del segno volitivo aggallano l’intuizione per un gesto ampio e la costrizione di una tavola, sempre troppo limitata per contenere tutte le emozioni accumulate nella vita.

L’inizio del percorso calcografico è stato tuttavia diverso; più informale, più emozionale; cercava la luce solo nel segno. All’inizio tracce e sedimentazioni si depositano come per costruire un’im-possibile costellazione: rimangono a volte tracce di questo passato, rimangono bisogni sottesi che riemergono. Forse nemmeno l’artista ricorda quando è emerso in lei il bisogno del segno diretto e deciso, quando il dialogo serrato tra carta e segno ha determinato la costruzione della tavola incisa sul duplice binario tra le geometrie arcane del segno e quelle più variabili e mobili del supporto. Angela si è mossa con cautela; ha sperimentato e cercato nuove figure; a volte i corrugamenti sono lasciati alla libertà del caso, a volte, l’autrice ha impresso regole certe al caso e al caos preesistenti; Corti ha elaborato immagini in cui sulla superficie del foglio è ben impressa un’incisione in bianco, una traccia senza nero, una geometria a rilievo, bianco su bianco, che crea nuove allusioni. Figlia ed erede della cultura delle neo avanguardie, di un’esperienza disponibile alla sperimentazione, l’incisione di Angela Corti approda alla libertà della luce, che sostiene i segni emersi per interna pulsione dall’energia della mano. Giunge a volte l’autrice a ribaltare il contrasto tra bianco e nero, scegliendo in una certa misura di dare al nero il diritto prioritario sullo splendore del foglio, come se solo nel contrasto della notte si potesse cogliere un barlume di verità: riemerge l’opzione originaria del suo mondo poetico. Viaggio contro corrente, viaggio nella materia, nel supporto, nella coscienza che si specchia nelle contraddizioni, l’opera calcografica di Angela si misura dunque sull’utopia di un disequilibrio sempre risolto e tuttavia insanabile, sempre superato e tuttavia invariabilmente presente.

3. E probabilmente è proprio il contrasto di luce, il contrasto tra segno diretto e rugosità del supporto cartaceo, tra bianco e nero, a favorire il passaggio alla scultura, alle forme plastiche che Angela Corti è venuta elaborando. Si è ampliato l’orizzonte espressivo e sono mutate le potenzialità, in virtù senz’altro di un nuovo materiale, ma anche in virtù di una diversa maturazione espressiva, in una certa misura più sensibile alle riflessioni che venivano dal concettuale; senza scordare la manualità del fare, ma senza enfatizzarne la presenza.

Parla di woven stone la nostra scultrice, di pietra tessuta; in realtà Corti prima rompe la pietra, poi con una pazienza che ad un tempo femminile e profondamente connessa ai nostri gesti, “ricuce” i due frammenti separati dal colpo netto di martello e scalpello. Tessere le pietre è gesto femminile per la sostanza e non è un gesto femminile per il supporto: un nuovo contrasto, a ben vedere. La pietra è dura, resistente, rigida; e il filo è di rame, ottone, acciaio; il filo è tenace, cromaticamente presente sul corpo ferito della pietra spezzata. Facili i riferimenti e il richiamo, da un lato a Lucio Fontana e al suo andare oltre la superficie del quadro, quasi a cercare una diversa verità, dall’altro lato alle opere “pokeriste” di autori come Mario Merz, che ha costruito o ricostruito con materiali inusitati spazi e luoghi raccolti, spazi per l’uomo dal disordine dell’ambiente e della storia. Per Corti il ricamo tra due pietre diviene un gesto amoroso, lieve in una certa misura, come se lo strappo inferto alla natura potesse essere ricondotto a misura, utilizzando la sapienza antica del rammendo. Cuce con un gesto opposto a quello di partenza: là la violenza, il gesto deciso, l’energia che si sprigiona e diviene rottura; qui il gesto lento, lieve, l’energia spesa a ripristinare un’unità perduta. In questo senso l’opera diviene anch’essa contraddizione palese, esibita; come se solo nel paradosso, Corti trovasse risposte adeguate alla realtà del mondo.

Cucire l’incucibile diviene opera che linguisticamente riporta alla calcografia; anche in questo caso, la pietra grezza, semilavorata (è sovente levigata nella parte esposta; ha una forma che l’autrice stessa sceglie, tra le mille forme possibili) appare come una parola già spendibile nell’universo della comunicazione; è un frammento di una storia più vasta, una parola in un vocabolario che da tempo si conosce; anche i fili (rame, ottone, acciaio) sono parole d’uso; servono alle mille opere quotidiane.

Nuova è la relazione, il legame (vero e proprio, non metaforico) instaurato; nuovo è il ritmo che esce dalle forme. Corti titola Frattura le sue opere, definisce lo stacco e l’energia che divide, più che il gesto femminile che riunisce: sceglie dunque di sottolineare l’elemento che immediatamente balza agli occhi, più che il lavoro seguente, di “ago e filo” che essa compie, per disegnare una diversa ragnatela, ragno-acrobata di una nuova dimensione, che ha tanto il sapore della sconfitta. Angela unisce ciò che ormai non è più unibile; rimane imprigionata nella sua stessa trama, si abbandona alle cromie del marmo, alle venature dalla pietra, al cui disordine contrappone l’ordine dei fili che ricuciono. Per confermare una visione del mondo da ricondurre nell’ottica del contrasto, della contraddizione. Specchiandosi nel mondo, anche l’opera di Corti sembra navigare a vista in un mare, in cui difficile, sempre più difficile, diviene l’approdo.

 Mauro Corradini
2006

…Il curriculum artistico di Angela Corti si presenta ricco di esperienze e diversificazioni di percorsi; in questo processo, l’approdo – non unico e non definitivo, ma caratterizzante – all’incisione costituisce una traccia, un segno diretto, la forza del gesto che si cala sulla lastra, le vibrazioni del tratto iterato, che costringe l’occhio a seguirne le accensioni. Non più prelievo dal mondo esterno, ma forse memoria; non più trascrizione di emozioni, ma incerto e instabile equilibrio tra pulsioni e rigori.
Da queste premesse il suo procedere per ossimori, il suo muovere con forza e vitalità il nero che tutto sovrasta, il brulicare sotterraneo, bianco su bianco, della superficie trafitta e martoriata, quasi a trascrivere nella buccia d’arancia di un’epidermide affaticata il senso segreto (e vibrante) del fare. Cui il segno, nel suo sovrumano silenzio, nel suo distendersi come forza originaria e immotivata, dà forma, senso, ragione di essere.

Mauro Corradini
Mostra d’incisioni Nero di Luce, 2004

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